giovedì 2 agosto 2007

Così provammo a uccidere Jfk

Dallas 1963: pochi giorni dopo l’attentato tre giornalisti ricostruiscono gli spari di Oswald

di IGOR MAN

Il 22 di novembre dell’anno di grazia 1963, a Dallas, ammazzarono John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Quel delitto «sconvolse il mondo». Radio Mosca, data la notizia, annullò tutti i programmi irradiando musica classica. Aveva 46 anni il presidente cattolico che un po’ tutti chiamavamo Camelot immaginando la Oval Room come una replica postmoderna della Tavola di Re Artù. Quarantotto ore dopo il delitto, attribuito immediatamente a «un poco di buono», Lee Harvey Oswald, un ex marine, chi scrive arrivava a Dallas. Mi aspettavo una città in gramaglie mentre, invece, quegli abitanti (se non tutti senz’altro la maggioranza) lietamente si affannavano a preparare il Thanksgiving Day, il giorno del ringraziamento. Il Carousel Lounge, il locale di Ruby, sì, l’assassino di Oswald, non accettava più prenotazioni, tutti i tavoli esauriti diceva un cartello. In verità Dallas era squassata da un isterico vento di follia: c’era chi non si curava di nascondere la gioia per la morte di JFK, colpevole, agli occhi dei neoconservatori texani d’essere un «bostoniano comunista», una «testa d’uovo» wanted per tradimento come affermavano manifesti che ritraevano, di fronte, di profilo, il presidente, in simbolica foto segnaletica. C’era chi manifestava composto dolore, come il signor John L. Block. Nel punto in cui Kennedy è stato ucciso, ai lati della strada che va in discesa, si aprono due verdi prati: sull’erba la pietà di pochi ha improvvisato un sacrario.
Accanto a una corona di fiori, un mucchietto di lettere. Ne ricordo una: «...gli Stati Uniti hanno perso il Presidente della Nuova Frontiera, io ho perduto mio fratello». Firmato John L. Block. Il quale signor Block ha avuto il torto di adoperare la carta intestata, con l’indirizzo eccetera. «Ignoti» hanno bussato alla sua porta, si sono fatti aprire per infine massacrarlo di botte. Ricordo come fosse oggi quanto mi disse un costernato reverendo metodista, il dottor Jimmy R. Allen: «Se è vero che il delitto poteva accadere dovunque, è un fatto come nessuno si sia sorpreso che sia avvenuto a Dallas». Ma perché il Vecchio Cronista scrive di JFK quarant’anni «dopo»? Vediamo. Ai primi di luglio l’agenzia Ansa ha dato rilievo a un singolare test eseguito a Terni dal Comando logistico dell’Esercito. Quegli specialisti dovevano esaminare un glorioso fucile da guerra italiano: il Carcano modello 91,38 matricola C2766, calibro 6,5 prodotto dalla Regia fabbrica d’armi di Terni. E ciò per accertare se l’assassino diremo ufficiale (Oswald) di JFK aveva sparato dal sesto piano del deposito della Libreria pubblica di Dallas, da un’altezza di ottanta metri, esattamente tre colpi; uno di essi fece saltare la calotta cranica di Camelot. Il verdetto di Terni differisce dalle conclusioni del «Rapporto Warren» secondo il quale Oswald agì da solo senza nessun aiuto: alone and unaided. A codesta conclusione giunsero anche i tecnici del Fbi, dopo una ricostruzione animata sul percorso fatale della decappottabile di Kennedy. La stampa italiana aveva a Dallas tre inviati: Virgilio Lilli del Corriere della Sera, Auro Roselli del Giorno e chi scrive.
Il metodo di indagine del Fbi non ci convinceva, non tanto per la conclusione quanto per le sue modalità. Una sera, dopo la oramai abituale discussione sui tempi e i modi della mitica polizia federale, convenimmo che se un esperimento si doveva fare, tanto valeva eseguirlo sparando senza cartuccia con un foto-fucile in modo che ad ogni colpo del percussore scattasse un fotogramma. Il punto indicato sulla fotografia dalle coordinate del mirino avrebbe corrisposto al colpo sul bersaglio. Auro Roselli, figlio di un inventore, riuscì a trovare l’arma, ad adattarle un mirino telescopico a quattro ingrandimenti, una batteria e una Nikon con un potente teleobiettivo che riproduceva l’ingrandimento del mirino, badando ad allineare quest’ultimo con l’obiettivo (da 180 millimetri) della macchina fotografica. Per eseguire l’esperimento che era diventato, per noi tre, una vera e propria scommessa professionale non bastava la Nikon adattata da Roselli con perizia e pazienza rabbinica. Occorreva l’arma, occorreva soprattutto il permesso dei «federali». Presi di petto un antico amico, l’avvocato Carr Collins: «L’America è o non è il paese della libertà? - gli dissi -, fateci fare ’sto esperimento che può aiutare la commissione d’inchiesta, vai a sapere. Vogliamo soltanto dare una mano», conclusi. Carr ci fece avere il permesso di entrare in quel «colossale corpo del reato» ch’era il deposito di libri. Nessun problema per l’arma. Negli Stati Uniti, in quel fosco novembre le statistiche stimavano ci fossero in giro cinquanta milioni di armi da fuoco. Comperare un fucile come quello che ci serviva fu facilissimo. Al 2108 della Elm Street c’è una scritta: Guns. Nel negozio di Billy Hodge, Roselli trova il fucile che ci serve: un Terni 38, calibro 7/35 simile al Carcano calibro 6/5 dell’assassino. Costa 14 dollari e 95 cents. Il signor Hodge scrive su di un registro il numero di matricola, S.5297, la data della vendita e domanda a Roselli come si chiami. Lui potrebbe dare un nome qualsiasi, magari Giuseppe Garibaldi, ma preferisce far le cose a modo. «Se vi serve poche ore, dopo il lavoro riportate pure il fucile. Ve lo ricompro per dieci dollari: mio figlio compie dieci anni a giorni, mi piacerebbe fargli un così bel regalo», dice l’armaiolo.
Ora racconterò il nostro «esperimento»: sulla scorta degli appunti che conservo in una cartella sulla quale, allora, scrissi CAMELOT. Dopo essere andato su e giù con l’ascensore della memoria, adopererò il tempo presente. Nel tentativo di attualizzare la cronaca della tragedia «che sconvolse il mondo». Col fucile in bella mostra percorriamo un po’ di strada sino a un posteggio di taxi. Nessuno ci bada, nel Texas puoi camminare armato fino ai denti, nessuno ti dirà niente; guai però a portare una pistola nascosta addosso. In taxi sino al 3121 di Rooth Street per ritirare dal signor Jim McCannon la Nikon arrangiata secondo le indicazioni di Roselli. Dieci dollari di spesa. Imbarchiamo pure il giudice di pace Charlie T. Davis, campione di tiro indicatoci dal Times Herald. Giunti al deposito saliamo al sesto piano: noi giornalisti, il signor Truly, guardiano del deposito, tre uomini del Secret Service, un agente del Fbi. Ed eccoci nella vasta soffitta che corre su tutta l’area del palazzo-libreria. Sette finestroni si aprono lungo la facciata esterna; da quello che fa angolo sulla sinistra rispetto alla strada, l’assassino sparò. Oswald piazzò qualche pacco di libri in modo da risultare defilato e appoggiò l’arma proprio su questi libri. Libri sacri, Cristo in croce sulla copertina (il caso è un regista dalla mano pesante, a volte). Il giudice prende posto seguendo le indicazioni dell’agente federale, io preparo il magnetofono che registrerà la cadenza dei colpi. Da qui, a ottanta metri, si domina ampiamente la Houston Street, volgendo lo sguardo a destra si inquadrano perfettamente i sessanta metri fatali. Roselli ha noleggiato una convertibile rossa e si è portato appresso Nick buon tiratore, come riserva: farà da autista. Accanto a Roselli che siederà al posto di JFK, Virgilio Lilli. È il 4 di dicembre del 1963, una giornata fra il lusco e il brusco come quella in cui si spense nel mondo la luce della democrazia. Accesa da un presidente cattolico. Allorché la convertibile rossa guidata da Nick con a bordo Roselli e Lilli imbocca la Houston Street, inopinatamente quassù tutti entriamo in tensione. Ecco, la convertibile ricalca il percorso della morte ed è angoscioso osservare «quella» automobile dal punto di vista, nel senso esatto della parola, dell’assassino. Oswald doveva disporre di nervi implacabili se fino all’ultimo succhiò un osso di quel pollo che aveva mangiato in attesa della preda per poi sputarlo e sparare.
Adesso è un giudice di pace a sparare: per finta, come in teatro. Come più tardi ci diranno le fotografie della Nikon incorporata nel fucile, il primo colpo sfiora la tempia destra di Lilli, e finisce nella spalla di Nick al volante; il secondo colpo sfiora di cinque centimetri la testa di Roselli e colpisce il cruscotto; il terzo passa al di sopra, un po’ sulla sinistra, dalla testa di Lilli. Il tutto nello spazio di sei secondi e mezzo con la convertibile a 25 km l’ora. Vale il terzo tentativo, i primi due essendo andati a vuoto: per l’eccessiva velocità della convertibile, per l’emozione del tiratore oltre tutto non pratico dell’arma. Se il risultato dell’esperimento (nelle condizioni descritte e con lo svantaggio che il peso della Nikon e di una batteria applicate al fucile con rigidi tiranti di fil di ferro han costruito per il tiratore) è quello detto sopra, è lecito affermare come per chi conosceva l’arma (Oswald, che inoltre sparava con un modello più veloce) sia stato possibile, in cinque secondi e mezzo far centro due volte, sia pure con una forte dose di fortuna. In fatto l’assassino aveva cinque secondi e mezzo per sparare non tre ma due colpi: il primo infatti, era già in canna. Qui finisce il racconto del Vecchio Cronista. Chi volesse saperne di più legga l’intrigante pezzo di Tessandori uscito sulla Stampa del 30 di giugno e ancora il lucido intervento sempre sulla Stampa (del 4 di luglio), dell’americanista Claudio Gorlier. P.S. Cari amici americani mi dicono che nel suo ultimo viaggio JFK aveva messo in valigia i versi di Whitman. Sottolineando con la matita copiativa questi versi. Un presagio, forse, dell’imminente buio. «Presso la riva dell’Ontario azzurro / un fantasma dal sacro volto / mi venne vicino / mentre meditavo sulla pace tornata / sui morti che non tornano più. / Cantami, disse, il Poema dell’America / l’inno della vittoria / e prima di andar via / cantami le doglie della democrazia». (Democrazia, predestinata vincitrice, eppure da ogni parte sorrisi ipocriti di traditori, e morte e infedeltà ad ogni passo).
Il Corriere della Sera, 2 agosto 2007

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