lunedì 21 gennaio 2008

Andrea Camilleri: «Il Sud muore tra rifiuti e Cuffaro»

di Roberto Cotroneo
Dall’immondizia in Campania al caso Mastella, passando per la condanna del governatore della Sicilia. Ne discutiamo con Andrea Camilleri, siciliano appunto, uno degli scrittori più famosi del mondo. «È la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo.
Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due». L’immondizia in Campania, il ministro Clemente Mastella indagato e la moglie agli arresti domiciliari. Antonio Bassolino travolto dalle accuse. Totò Cuffaro, governatore della Sicilia condannato a cinque anni con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. E nonostante questo decide di non dimettersi. La politica, di centro destra come di centro sinistra, travolta da una vecchia storia che ci portiamo dietro da 150 anni, e forse di più. Fatta di due paroline semplici semplici: questione meridionale. Anzi, di più: la nuova questione meridionale, che ormai non è più soltanto emergenza criminalità, ma emergenza totale. Siamo andati a bussare alla porta di Andrea Camilleri, siciliano, uno degli scrittori più famosi del mondo. Per capire assieme a lui i termini di questa emergenza, che rischia innanzi tutto di travolgere il centro sinistra, e l’intero paese.

Camilleri, cominciamo da Cuffaro?
«Per ciò che riguarda Cuffaro, io esprimo la mia solidarietà assoluta a Cuffaro».

Prego?
«Siamo in un periodo in cui va di moda esprimere la solidarietà, e quindi io non vorrei essere da meno. Per un fatto molto semplice: non si capisce perché venga condannato a cinque anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, un signore che ha passato un’informazione a un altro signore, non sapendo che quest’altro signore era legato alla mafia. Quindi o lo si assolve riconoscendogli la buonafede, o lo si condanna a quindici anni, con tutte le aggravanti del caso».

Con questo ragionamento cosa vuole intendere?
«Che ancora una volta la magistratura ci mette il carico da undici, nella direzione dell’ambiguità. Noi viviamo in un paese assolutamente ambiguo dove non c’è più un’istituzione che non sia toccata dall’ambiguità dei comportamenti. Trovo questo il punto di decadenza massima di un paese».

Cerchiamo di mettere a fuoco il concetto di ambiguità. Ambiguo perché non si capisce? O ambiguo perché si dice una cosa per l’altra?
«No, si capisce benissimo, purtroppo. Senonché questa cosa che si capisce benissimo viene proposta in un modo tale che diventa un’altra cosa. Noi abbiamo avuto, per esempio, una sentenza esemplare, per richiamarci a un titolo di Leonardo Sciascia, che è quella di Giulio Andreotti. Andreotti è stato riconosciuto, da una sentenza definitiva, colluso con la mafia fino al 1980. Ma questi reati sono stati prescritti. Come è stata presentata all’opinione pubblica? Come un’assoluzione per Andreotti. Ecco un caso di ambiguità».

D’accordo. La sentenza Cuffaro sarà pure ambigua, ma lui dovrebbe comunque dimettersi.
«Non lo fa perché lui dice: vedete, non sono stato condannato per concorso esterno con la mafia. Dunque posso restare al mio posto. Nonostante avesse dichiarato che in qualunque caso e con qualunque sentenza lui si sarebbe dimesso. Questi qui non si scrostano dal loro potere. Perché scrostarsi dal potere per Cuffaro vuol dire far cadere l’Udc in Sicilia».

Un altro che non si dimette è Bassolino. Per motivi assai diversi. Ma certo gravi.
«Bassolino? Senta, i miti invecchiano. Non dovrebbero, ma purtroppo invecchiano. Il compito di un mito è anche quello di avere la percezione dell’appannamento del mito. Se non c’è questa percezione si finisce travolti dalla monnezza».

E invece?
«E invece io penso che se non fosse stato per il papa, se non fosse stato per Mastella, i politici italiani avrebbero trovato il miglior argomento al loro livello della discussione: la monnezza. Quello è un livello dove si muovono bene».

Vuol dire che la monnezza è una metafora dei mali italiani?
«La monnezza è la punta evidente di quello che per anni si continua a ignorare volutamente, e che è la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due».

Ma sono anni che la forbice si allarga sempre più.
«Vede, nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non per la questione meridionale».

Parliamo della sinistra. Dal luglio scorso, con il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino a oggi sembra passato un secolo. L’immagine del Pd fatica a uscire fuori. I rimbrotti del papa, il problema della Campania, con Bassolino, con Mastella, regione amministrata dal centro sinistra, il trasferimento di magistrati come De Magistris...
«Senta, io verso il partito democratico ho avuto un atteggiamento chiaro fin dal primo momento. Ho pensato che era un qualcosa che non mi riguardava. L’estate scorsa Veltroni mi chiese di fare da garante per ciò che riguardava il Pd in Sicilia».

E lei cosa ha risposto?
«Rinunciai, perché istintivamente ho pensato che non volevo avere nulla a che fare con il Partito Democratico. Prima ancora che un fatto politico era un fatto sentimentale. Per me a 81 anni, era la perdita totale della mia identità di comunista. Mi hanno fatto diventare il mio abito da comunista un vestito da Arlecchino, pieno di vari colori, e non ero disposto a perdere gli ultimi dieci centimetri, di colore rosso che mi erano rimasti, di quel vecchio costume che avevo indossato per settant’anni. Però... ».

Però?
«Tutto quello che è successo dopo nel partito democratico non ha fatto altro che confermare le mie riserve. Comprese le inutili trattative con Berlusconi sulla legge elettorale, dove Veltroni ha fallito».

Ma ne è sicuro? La partita non è ancora per niente chiusa.
«Senta, il cavaliere è abituato come un danzatore a fare delle giravolte, e l’altro ieri ha fatto un’altra giravolta, e ha detto: meglio il referendum. Un’affermazione che pone fine a qualsiasi trattativa possibile sulla legge elettorale. Il problema non è mettere la signora Lario all’interno del Pd, ma è l’identità del Pd. Dove trovi la senatrice Binetti, ma trovi anche persone lontanissime dalle posizioni della Binetti».

Questo è pluralismo, posizioni diverse, è un arricchimento. O no?
«Certo. Io ogni domenica a casa mia ospito degli amici. Uno dei quali è fascista. L’altro giorno si è ammalato e io ho visto il mio salotto diventare grigio perché mancava la sua voce. A casa mia. Non in un partito politico. Un partito politico non può avere che dei timoniere in una direzione. E non può avere dei timonieri che mettono la rotta su diversi percorsi».

Lei pensa che la nuova questione meridionale sarà l’elemento che rischia di mandarci tutti a fondo?
«Ma vede. Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’unità d’Italia nei riguardi del sud, sia arrivata al punto finale: questa colonia del sud rendendo sempre di meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del sud è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il nord».

Vuole fare il conto?
«Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e produce ricchezza al nord».

Ci sono cervelli del nord che producono ricchezza al sud?
«No, non esistono, quel poco di ricchezza del sud è prodotta da gente del sud».

Lei ha una spiegazione?
«La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio. Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici. Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così».

Appunto, torniamo a oggi. Tutti questi danni sembrano arrivare sulle spalle della sinistra. Ma ancora non abbiamo toccato il caso Mastella.
«Mastella è un errore politico di Prodi. Che ora sta scontando amaramente. Fino al giorno prima della formazione del governo, io avevo appreso che Mastella era in ballottaggio con Emma Bonino per andare al ministero della difesa. Ci siamo svegliati il giorno dopo e abbiamo saputo che Mastella era diventato ministro della Giustizia. Non abbiamo avuto spiegazioni su cosa sia avvenuto quella notte. Ma è certo che fin dal primo momento, io personalmente, dissi: questo è un errore madornale».

In che senso?
«Mastella era il meno indicato a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Intendiamoci: non è detto che doveva andarci un giacobino. Sarebbe stato un errore di pari importanza. Ma al ministero della Giustizia bastano persone di buon senso. Non dico di mettere Francesco Saverio Borrelli. Ma una persona meno coinvolta di Mastella in quella che è la concezione della politica come merce e come potere. Noi ci aspettavamo un governo specchiato e adamantino. Mastella non è quella persona. Noi sappiamo che Mastella è un uomo che ama trattare».

E adesso che cosa si fa?
«Adesso assistiamo alle conseguenze. Ieri Berlusconi, cupamente, con il foularino al collo, ha detto: dobbiamo tornare subito a votare per una sostanziale riforma della giustizia. E tutti sappiamo cosa significa, per lui, la riforma della giustizia».

Un’ultima domanda: lei pensa questo paese sia profondamente corrotto dal punto di vista filosofico e culturale?
«Sì. Io sarò un pazzo però c’è una cosa che mi gira per la testa da un sacco di tempo: gli italiani sono un popolo incolto. Basta vedere quello che leggono e quanto leggono rispetto agli altri popoli. Sono convinto che Berlusconi il suo potere lo ha preparato già da 30 anni a questa parte, e dal momento in cui ha indirizzato in un certo modo le sue tv commerciali. Da quel momento il livello culturale degli italiani si è abbassato in maniera esponenziale. E lo vediamo dai deputati che produciamo. La nostra è una nazione destinata a un misero decadimento se non avviene uno scossone».E lei crede sia ancora possibile questo scossone?«Noi siamo capaci di scossoni, ma solo quando arriviamo alle porte coi sassi, come dicono i fiorentini. Non riusciranno più a fare la legge elettorale. Arriveremo al referendum. Va bene così. Sarà devastante? Che lo sia. Vedremo se poi riusciranno a rendersi conto che si devono veramente cambiare le cose».

roberto@robertocotroneo.it

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