lunedì 12 maggio 2008

Claudio Fava. Ricominciamo, per la sinistra

Un editoriale che è programma di lavoro, è quello di Claudio Fava, coordinatore nazione di Sinistra Democratica

Permettetemi di ringraziare in modo non rituale Fabio Mussi, non solo per l’impegno che ha investito in questi mesi difficili nel nostro movimento e nel nostro progetto. Penso che se siamo qui, tutti qui, dopo gli anni trascorsi nei DS, cercando di mantenere ferma in modo convinto e trasparente la nostra posizione politica, se abbiamo superato tre congressi dei Democratici di Sinistra continuando a ritrovarci nel progetto fondativo di un nuovo soggetto di sinistra lo dobbiamo anzitutto a Mussi, al modo in cui ha offerto guida e riferimento, sempre in punta di coerenza, per questo progetto. E dice bene Mussi nel ricordarci che la sinistra ha ancora una funzione importante da svolgere in questo paese. Io aggiungo: a patto di essere spietati con noi stessi, di indagare senza pudore i nostri limiti, di rivedere le categorie interpretative, i linguaggi e le forme organizzative di questa sinistra. Cercando di mettere a frutto quel “3” politico che il nostro progetto ha ricevuto il 14 aprile dagli elettori.
In quella bocciatura c’è anzitutto un nostro debito di verità. Verità su un progetto che abbiamo tentato di far passare come la prima prova di un nuovo soggetto politico di sinistra, pur sapendo che Sinistra Arcobaleno, nelle pratiche di alcuni soci fondatori, nel gioco delle reciproche diffidenze, nella vetustà dei linguaggi, non era un soggetto politico, e non era affatto nuovo: era solo un cartello elettorale. Abbiamo mentito, sapendo che ogni nostra rassicurazione sulla cifra comune e condivisa di questo percorso era una gentile ma sfacciata menzogna. Negli stessi giorni della campagna elettorale, mentre dal palco dei comizi ci ritrovavamo tutti insieme per recitare una liturgia rassicurante, alcuni partiti della Sinistra Arcobaleno aprivano il loro tesseramento.
Siamo apparsi poco credibili, invecchiati precocemente, costretti a linguaggi, asserzioni, certezze che apparivano abissalmente distanti dal paese reale. Abbiamo continuato ad interpretare il malessere sociale, la povertà diffusa di milioni di italiani con la categoria semplificatoria di “classe” senza comprendere che questa povertà è trasversale, affligge ceti medi e piccola borghesia, operai e salariati. In quella povertà non c’è una classe ma l’insicurezza sociale e la precarietà esistenziale che ha profondamente modificato il senso comune del paese. Solo che in questi quindici anni, mentre il paese precipitava lungo la china delle nuove paure e dei nuovi nemici, noi siamo rimasti a guardare, lasciando alle forze più conservatrici il compito di interpretare e assecondare questo nuovo, devastante senso comune.
Eppure più volte abbiamo avuto la possibilità di intercettare la domanda di cambiamento che la società rivolgeva alla sinistra. Dalla provocazione di Moretti a Piazza Navona ai tre milioni a Roma per la manifestazione a sostegno dell’articolo 18, agli autoconvocati di piazza san Giovanni fino ai centomila di Bari per la grande manifestazione antimafia di due mesi fa: abbiamo lasciato che questa richiesta d’un nuovo senso politico, di nuove forme di partecipazioni e di rappresentanza scorresse sotto il nostro sguardo come se si trattasse d’un film, una finzione, un paese che non c’era. Quel paese c’era, e il 14 aprile ci hanno presentato il conto. Abbiamo pagato la diffidenza con cui la sinistra ha interpretato questa fase costituente, abbiamo pagato il nostro linguaggio da piccoli maestri che credevano di parlare ad un paese che non esiste più.
Da dove ripartiamo? Da noi stessi, anzitutto. Dal progetto costituente che ci tiene insieme, da questa idea forte e necessaria di una nuova costituente di sinistra. Partendo però da alcuni chiarimenti di merito e di metodo. Intanto, un cantiere per una nuova sinistra si fa con chi ci sta. Non con tutti. Il tema dell’unità di tutte le forze di sinistra è un falso problema, una mitologia, una sovrastruttura. C’è chi ritiene oggi (e forse ha sempre pensato) di dare vita ad una costituente comunista: è un progetto che io rispetto, ma che nulla ha a che fare con il nostro percorso e il nostro punto di arrivo. Sono incompatibili, e non per il repertorio dei simboli e delle identità che pure è cosa che comprendo e rispetto. Ma perché in quel dirsi ad alta voce anzitutto comunisti sento il limite di una sinistra che non accetta di guardarsi dentro, che non vuole rinunziare alle proprie ridotte, alle proprie categorie, alla deriva identitaria, e poco importa se oltre quell’identità c’è un altro mondo, un altro paese, un’altra dinamica di conflitti sociali ed economici.
Ecco, è quella loro certezza a separarci. E a farci dire che una costituente di sinistra ha senso se si ripensa con onesta concretezza all’identità stessa della sinistra, alla sua capacità di porsi come motore di rappresentanza e di trasformazione non più di un paese virtuale ma di questo disperato e reale paese in cui viviamo. E qui si arriva a un secondo elemento di chiarezza necessaria: Sinistra Democratica vuole lavorare, con il contributo della sua autonomia, alla costruzione di un nuovo centrosinistra per il governo del paese. Questo vuol dire superare il concetto di una sinistra e di un Partito democratico, ciascuno per sé autosufficiente: in quella autosufficienza, già bocciata dal voto degli elettori, non c’è una scelta politica: c’è solo una fuga. Un nuovo centrosinistra, dunque, che nulla della vecchia esperienza dell’Unione abbia in sé. Superando, da parte nostra, la ridicola contrapposizione tra sinistra di governo e di opposizione. Come scriveva bene Occhetto qualche giorno fa sull’Unità, non esiste una sinistra che sia sempre di governo o sempre di opposizione: la sinistra sta dove gli elettori le hanno offerto di stare, conservando sempre la cifra della propria coerenza e dei propri obiettivi.
Dove si collocherà questa nuova sinistra rispetto alle grandi culture politichesi riferimento? La famiglia di Sinistra Democratica resta quella del Socialismo europeo: ma dev’essere intesa come una risorsa, non come un limite o un rifugio identitario. Tanto più che la domanda inevasa in questa campagna elettorale non è a quale famiglia politica avrebbe aderito la Sinistra arcobaleno, se al Pse o alla Sinistra europea. C’era un’altra domanda, ben più urgente: in cosa quel progetto mostrava una vocazione realmente unitaria? In cosa era davvero “nuovo” il nostro progetto? In quali pratiche organizzative, in quali forme di partecipazione, in quali linguaggi eravamo altro da una coalizione di partiti? La risposta è stata spesso solo un balbettio.
E’ tempo di dire. E di rivedere anche il nostro rapporto con il PD. E’ stata una scelta consapevole quella di non aderire a quel progetto, e di quella scelta restiamo tutti assolutamente convinti. E se un dialogo deve costruirsi con il Partito democratico, va fatto su posizioni di reciproco rispetto e autonomia. Il problema non è solo la dinamica delle alleanza, ma la politica che essa sottende. Davvero il Pd ritiene con il 33 per cento di poter rappresentare metà di questo paese e di poter puntare al governo dell’Italia? Se così non è, siamo pronti a un confronto. Ma, ripeto, pari dignità reciproca autonomia e coerenza nel dialogo: se quel dialogo non serve a Roma, non esisterà nemmeno nelle periferie. La sinistra, e certamente Sinistra Democratica, non può essere una shopping list dalla quale prelevare voti e alleanze solo quando le coalizioni servono ai governi locali.
Tutto ciò, un nuovo cantiere a sinistra e un diverso rapporto con il PD, pretende da Sinistra Democratica la capacità di definire se stessa, il proprio contributo, il proprio orizzonte politico di riferimento. Senza aspettare i congressi degli altri partiti ma sviluppando una propria fase costituente che restituisca al movimento anche quelle dosi di democrazia e partecipazione interna che fino ad oggi sono state carenti. E’ l’unico modo per uscire dalla dimensione della “mozione congressuale”: le compagne e i compagni del comitato promotore, al 90%, provengono dall’esperienza dei DS. I nostri quadri dirigenti, i nostri (pochi) eletti, i mostri militanti: siamo quasi tutti la prosecuzione inerziale della mozione congressuale di due anni fa. Questo non è un limite: è la certezza della nostra superfluità. Sinistra Democratica deve scegliere di essere altro, di aprirsi, allargarsi, contaminarsi con percorsi e storie diverse, di rinnovare profondamente i propri gruppi dirigenti, di proporli come la rappresentazione di una nuova, possibile sinistra che sappia parlare non solo ai reduci di una battaglia congressuale ma a una parte vasta e attenta del paese.
A questo servirà l’assemblea nazionale convocata per i primi di luglio: certo, a rinnovare i gruppi dirigenti, a offrire a questo processo un imprinting democratico, ma soprattutto a fare di Sinistra Democratica altro e di più, trasformando ciascuna delle 500 assemblee locali che convocheremo nei prossimi giorni in altrettanti momenti di iniziativa e di proposta politica.
Ritrovarci per questa discussione a trent’anni dalla morte di Peppino Impastato forse non ha solo il sapore d’una coincidenza. E’ la dimostrazione che trent’anni fa come oggi, esiste un altro paese fatto di donne e di uomini liberi, che vogliono vivere per cambiare le cose, non per subirle. Né per rassegnarsi alle malinconie del senso comune.

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