lunedì 20 ottobre 2008

PAROLE E SILENZI. Quando i gesti sono simboli

di Domenico Valter Rizzo
Un magistrato, una donna, Anna Canepa, che torna in Sicilia dopo anni trascorsi al nord, avendo lasciato l’Isola a seguito di un attentato ai suoi danni ordito da Cosa nostra; un Papa che si reca in pellegrinaggio in terra di camorra, ma di camorra sceglie di non parlare. Due scelte compiute a poche ore di distanza in luoghi diversi e dettate da motivazioni assolutamente indipendenti. Entrambe le scelte hanno però un tratto comune ed è quello del loro valore simbolico.
E’ ovviamente chiaro che Joseph Ratzinger non è mosso da alcuna volontà di copertura o di avallo della camorra. Ci mancherebbe. E’ bene sgombrare subito il campo da ogni fraintendimento su questo punto. Il suo gesto è comunque un gesto che viene letto, interpretato, metabolizzato in una terra – la Campania – che, come la Sicilia, di simboli si nutre. Un gesto che elide la scelta diametralmente opposta fatta da Giovanni Paolo II sulla spianata dei Templi di Agrigento. Anche l’anatema di Wojtila era un atto simbolico, compiuto in prossimità della morte di don Pino Puglisi. Anche il Papa polacco, come l’attuale Pontefice, era giunto in quella terra per un pellegrinaggio di fede, ma ciò non gli impedì di svolgere il suo compito di Pastore e indicare la Via, spiegando una cosa semplicissima, ma al tempo stesso dirompente in quella regione martoriata: non si può essere contemporaneamente fedeli a Gesù Cristo e a Cosa nostra. Da qui l’invito ai “pagani della mafia” a convertirsi. Altro simbolo nella scelta del luogo: Agrigento, la città dove cosa nostra è nata, dove ha sede la più antica famiglia di mafia della Sicilia.
Ratzinger ha invece scelto il silenzio. I vertici Vaticani spiegano che si è trattato di un atto di rispetto verso i campani onesti che, ovviamente, sono la maggioranza. Non si comprende quale sarebbe stata l’offesa per i campani onesti se un Papa avesse detto chiaro e tondo che i camorristi non solo sono contro la Campania onesta, ma sono anche contro il messaggio di Cristo e del Vangelo. Quale sarebbe stato il vulnus arrecato alle persone per bene che vivono in quella terra? Non vi è alcun dubbio sulla buona fede del Pontefice, ma è altrettanto fuor di dubbio che allora la parola di Wojtila tolse consenso agli uomini di mafia, bollando come blasfemi i loro rituali, la loro finta fede e il loro ossequio al ritualismo cattolico, dal quale traevano prestigio e rispetto. Questo ha fatto la parola, il silenzio rischia invece di alimentare l’equivoco secondo il quale a far danno ad un territorio non sono le mafie che lo devastano, bensì il fatto che di questa piaga si parli. Se il Papa – seppur con le migliori intenzioni - tace in terra di camorra le donne e gli uomini che parlano, denunciano e agiscono contro di essa finiscono inevitabilmente per essere più soli. Diviene allora lecito il silenzio e il voltarsi sempre dall’altra parte. Una scelta che miglia di campani, calabresi e siciliani fanno ogni giorno, perché nessuno li aiuta a farne una diversa, nessuno li fa sentire meno soli, nessuno da loro un occasione. In questo silenzio il loro peccato di omissione si confonde in uno scenario ambiguo, in una palude di normalità.
Forse se il Papa avesse parlato a Pompei tanti parroci si sarebbero sentiti meno soli, tanti ragazzi impegnati nelle associazioni cattoliche sul territori avrebbero avuto un’iniezione di forza, tanti giovani avrebbero preso coraggio e magari avrebbero smesso di pensare che l’unica strada, se non vuoi fare il camorrista e neppure la fame, sia quella di scappare via dalla Campania piuttosto che dalla Sicilia o dalla Calabria.
Scappare o tornare? E qui veniamo al secondo messaggio di questi giorni. Anna Canepa nel 1992 era una giovane donna, entrata per passione in magistratura. Lavorava nella procura di Caltagirone, in un crocevia pericoloso dove si intrecciavano tre grandi organizzazioni criminali: La famiglia catanese di Cosa nostra, guidata da Nitto Santapola, la famiglia di Caltanissetta e Gela guidata da Piddu Madonna e la nuova mafia della Stidda a Niscemi. Lavorava bene, Anna Canepa e quelli che si fanno chiamare uomini d’onore avevano deciso di ammazzarla con un auto bomba, insieme ad un colonnello dei carabinieri. Si salvò solo perché un pentito raccontò ogni cosa e fece fallire il piano stragista. Si salvò dal tritolo, ma fu costretta ad andar via, a lasciare la Sicilia. In questi anni, Anna Canepa ha vissuto a Genova, ha lavorato alla direzione distrettuale antimafia e ha assestato colpi durissimi alla mafia e segnatamente alla cosca di Madonna, che sino a Genova aveva allungato le sue spire. Oggi la dottoressa Canepa torna a Gela e lo fa senza grandi clamori, anzi ci tiene a sottolineare che non si tratta di una scelta eroica. Una decisione normale. Tornare a Gela per indagare sui traffici della mafia che l’aveva condannata a morte può sembrare una scelta folle, eppure questa donna di 49 anni la descrive come una scelta di ordinaria amministrazione. Anche lei a suo modo lancia un messaggio ed è che la lotta alle mafie non è una cosa troppo complicata, qualcosa che possono fare solo supereroi: basta accettare di correre dei rischi, basta sapere che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Occorre avere la consapevolezza che non tutte le scelte sono uguali. Spesso sono opposte. Come quelle che ogni giorno si trovano a scegliere politici, magistrati, commercianti, imprenditori, professionisti. Scelte dirimenti.
Un avvocato qualche tempo fa mi raccontava che negli studi professionali di Catania si costituiscono molte società. Alcune di queste si occupano di sanità. Nello studio grande si firmano gli atti davanti agli avvocati e al notaio. Sulla carta ci sono le quote fittizie tra i soci; poi si va tutti nella stanza accanto per prendere il caffè e lì arriva un uomo a cui nessuno chiede il nome. Porta con se cinque o seicento mila euro se l’affare è piccolo. Denaro contante. Lì, in quella stanzetta, si regolano le quote reali. Di chi sono quei soldi? Chi sono i veri soci di quelle cliniche private che poi prenderanno le convenzioni con il servizio sanitario nazionale? Nessuno in quella stanza se lo chiede. Bene, anche lì basterebbe una scelta semplice: non accettare di fare da “consigliori” a questa gente. Chiamarsi fuori. Smetterla di voltarsi dall’altra parte e onorare la propria professione. Sarebbe una scelta di ordinaria amministrazione, come quella di Anna Canepa, magistrato della Repubblica italiana da oggi a Gela in servizio permanente effettivo.

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