lunedì 15 giugno 2009

Bianca Berlinguer ricorda il padre: «Quel giorno a Yalta con con Ponomariov...»

di Concita De Gregorio
Dal giorno della sua morte la famiglia di Enrico Berlinguer – la moglie, i suoi quattro figli – ha mantenuto un riserbo assoluto. Mai un’intervista né uno scritto sul marito e sul padre. «Perché così lui avrebbe voluto, perché niente si poteva togliere né aggiungere davanti a quella grande testimonianza di affetto collettivo», dice oggi Bianca.
Ora che sono passati 25 anni, un quarto di secolo, la primogenita di Enrico ha deciso di condividere con i lettori dell’Unità un frammento del diario familiare. Una foto dall’album che ci lascia entrare per un momento nella sua vita privata e nei suoi ricordi, un varco in uno spazio gelosamente custodito: ci mostra il padre com’era e ci consente di immaginare di vederlo. Al mare, un giorno qualsiasi. È un regalo, in un certo senso. Lo accogliamo con gratitudine.
Di papà amo ricordare quella frase di un’intervista a Giovanni Minoli: “Mi dà fastidio che dicano che sarei triste, perché non è vero”. È come lo dice che mi piace: sorridendo. Non era triste nemmeno un po’. Era introverso e tuttavia capace di essere anche molto estroso, in particolare con noi bambini. Ci portava alla ruota dell’Eur, in tutti i luna park delle città che visitavamo, a camminare in luoghi impervi e su rocce a strapiombo e poi in barca, a vela latina, quella senza deriva, nel mare di Stintino. Mia madre racconta che lui diceva sempre: se potessi scegliere come morire vorrei che fosse in mare. Mamma aggiungeva scherzando che più di una volta ci aveva pure provato. Affrontava il mare in tempesta con il cugino Paolo. Per lui il mare era un’avventura e una sfida. Una volta io e mia sorella Maria abbiamo fatto naufragio al largo dell’Asinara, fortunatamente papà era avanti e ha visto che non lo seguivamo più: di certo non saremmo potute rientrare a nuoto. Mi ha insegnato il mare. Un amore assoluto. E ad andare in bicicletta quando ero ancora piccolissima. In un giorno solo, al Foro italico. Io cadevo e lui diceva: devi risalire subito se no ti viene paura e non ci vai più. Sono tornata a casa con le ginocchia sbucciate ma avevo abbandonato definitivamente le ruotine. Sono sempre i padri che insegnano ad andare in bici, no? Con lui abbiamo imparato anche a nuotare. Un giorno in canotto. Ha detto, a me e ai miei fratelli: scommettiamo che se vi buttate nuotate? Io vado in acqua, voi tuffatevi, se non ce la fate vi prendo io. Ci aiutava nei compiti. Soprattutto storia e filosofia. E ci faceva capire se i nostri fidanzati gli piacevano ma senza dirlo: non era necessario, si vedeva molto chiaramente. Abbiamo quasi sempre pranzato insieme. Almeno quando poteva tornare a casa. Noi figli si parlava, spesso si litigava, lui soprattutto ascoltava. E ripeteva: non urlate, non urlate, per carità. Non era severo, era fermo. Abbiamo sempre fatto almeno quindici giorni di vacanze tutti insieme. Luglio si andava con gli amici, ciascuno coi suoi. Ad agosto insieme noi sei. Per anni abbiamo affittato a Stintino l’ultima casa del paese quella della signora Speranza. Allora era proprio un borgo di pescatori. Ciascuno di noi figli aveva il suo gruppo, si cresceva insieme un’estate dopo l’altra. Poi nel ’77 non ci potemmo andare più. Erano gli anni del terrorismo, c’erano grandi problemi di sicurezza. Ricordo un giorno a Roma, tornando a casa col Boxer, lo trovai da solo fuori dalla porta senza nessuno della scorta. Mi hanno convocato a scuola dei tuoi fratelli, mi disse, dobbiamo andare subito, portami tu. Andammo in due sul motorino, aveva il sellino da uno, io stavo in piedi sui pedali. Al ritorno sotto casa c’era uno spiegamento di forze: ma dov’è che sei andato, in motorino con tua figlia da solo, siamo matti? Fu l’unica volta. Era rispettosissimo delle regole della sicurezza soprattutto perché non voleva creare problemi ai compagni che stavano con lui: Menichelli, Franceschini, Righi, Alessandrelli. Siamo cresciuti con loro. Comunque: dal 77 non fu più possibile andare a Stintino. Quella casa non si poteva proteggere. Così per due anni andammo all’Elba, poi nel ’79 i miei decisero di portarci in Unione Sovietica. Yalta, Leningrado, Kiev. Si andò in nave passando dalla Grecia. Mi ricordo che all’arrivo affacciandosi dal ponte papà disse: “oddio c’è Ponomariov”. Ponomariov era il dirigente che si occupava dei partiti comunisti non al governo. Ci portarono in una casa sul mare con un bellissimo giardino. Papà ci disse, mi raccomando cercate di non parlare in casa perché sarà piena di microfoni, parlate all’aperto. Mia sorella Laura aveva 9 anni, ci fece impressione questa storia dei microfoni ma tanto che potevamo dire di segreto?, gli chiedemmo, lui sorrideva. Eravamo circondati dagli uomini della sicurezza sovietica, ci seguivano dappertutto. Se il mare era mosso non volevano che facessimo il bagno. Quando vedevano uno di noi figli entrare in acqua arrivavano di corsa e facevano segno col dito: “Berlinguer, no”. Ci chiamavano tutti Berlinguer. Allora andavamo a protestare da mio padre, io avevo 18 anni protestavo molto. E così lui veniva in acqua con noi: se entrava lui non potevano dir nulla. Capeggiava la ribellione familiare. Faceva il bagno con noi e i sovietici a quel punto dovevano spogliarsi ed entrare in acqua anche loro. C’era un’interprete che si chiamava Nina, allegra e chiacchierona, ma quando veniva a cena Ponomariov diventava taciturna e rigida, si cambiava, si toglieva i pantaloni e si metteva la gonna. Nell’Urss non siamo più tornati. Papà sì per i funerali di Andropov, quella volta che non volle mettersi il colbacco. L’anno dopo finalmente potemmo tornare a Stintino. Dall’80, qualche anno ancora. Di nuovo a veleggiare, papà era sempre al timone. Gli piaceva tantissimo il maestrale forte, mamma non voleva che ci portasse quando c’era mare ma ormai eravamo grandi e in barca ci andavamo da soli. Il giorno che è partito per Padova siamo andati all’aeroporto insieme. Lui a Genova, io in Sardegna. Ci siamo salutati lì. Quando mi hanno chiamata la notte ho capito subito che doveva essere una cosa molto grave: lui non avrebbe permesso che chiamassero a quell’ora. A Stintino, a casa di Speranza, non siamo tornati mai più».
L'Unità, 13 giugno 2009

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