domenica 9 agosto 2009

I DUE MORI

di Agostino Spataro
Nella lista dei servitori dello Stato che, in epoche diverse, sono stati impegnati nella lotta alla mafia, spiccano due personalità le quali, ciascuna a suo modo, hanno esercitato il mandato ricevuto fra polemiche e grandi clamori: il prefetto Cesare Mori e il colonnello Mario Mori, già vice-comandante dei Ros.
A ben vedere, si tratta solo di una casualità, di un’illustre omonimia. I due funzionari, per altro, hanno operato in contesti politici e storici molto diversi, a distanza di 70 anni l’uno dall’altro. Solo il caso, dunque, ha fatto “incontrare” i due Mori in Sicilia sul terreno impervio del contrasto alla criminalità organizzata. Oggi, le cronache si occupano spesso del secondo Mori per vicende complesse, e poco chiare, a proposito di “papello”, “trattativa”, nelle quali non desideriamo addentrarci. Saranno le inchieste e i processi a illuminare le verità connesse. Vorrei, soltanto, cogliere quest'omonimia che, certo, è casuale ma molto suggestiva. Soprattutto, per quanti, in forza dell’età o dei ricordi, possono valutare la differenza di ruolo dei due alti funzionari in rapporto al tipo di Stato che li ha comandati. Poiché, più che la personalità dei singoli funzionari conta, in questo caso, il mandato conferito dai governi committenti.

Due Stati due Mori
Insomma, due Stati due Mori, si potrebbe dire. Su questo bisogna cominciare a riflettere, specie alla luce delle recenti dichiarazioni rese dall’on. Luciano Violante ai magistrati di Palermo secondo le quali il vice comandante dei Ros per ben tre volte gli prospettò un incontro riservato con Vito Ciancimino, al di fuori dei canali istituzionali. Abbiamo atteso da parte del generale Mori una chiara smentita di tali affermazioni, ma ancora non c’è stata. Perciò, nascono, spontanee, tante domande cui si spera vengano date risposte esaurienti. A che cosa doveva servire quell’incontro? Forse a sondare, a saggiare la posizione di una personalità istituzionale di rilievo, e della forza politica d’appartenenza, su qualcosa di anomalo? Forse il diniego di Violante ha bloccato sul nascere un disegno maldestro? La faccenda è di enorme rilevanza processuale, ma soprattutto politica giacché, se attivazione c’è stata, Mori non ha agito, certo, per ragioni personali, ma in esecuzione di un ordine impartito dall’alto. Quanto alto? Anche l’altezza del livello dovrà essere accertata in sede processuale. Tuttavia, a rigor di logica e dell’esperienza, l’eventuale comando, chiunque l’avesse dato, non poteva essere ignorato dai più alti livelli dello Stato e quindi dalle forze politiche che lo Stato dirigevano in quel momento storico. Altrimenti, si aprirebbe uno scenario molto più inquietante di quello, oggi, immaginato.

Cesare Mori: il “lusso” della verità storica
Da questo cerchio non si esce. Anche se, ripeto, l’ultima parola spetta alle inchieste, alle sentenze della magistratura che spero, sinceramente, possano dimostrare l’inconsistenza di tale ipotesi. Diversamente, ne uscirebbero mortificate l’etica e la funzione dello Stato democratico che non tratta con i criminali, ma previene e reprime. L’ipotesi sarebbe, per altro, in forte contrasto con la missione affidata dal governo fascista di Mussolini, a metà degli anni ’20 del secolo scorso, al prefetto Cesare Mori di dirigere e coordinare una vasta e dura campagna di repressione contro le organizzazioni mafiose siciliane. Altri tempi, altri contesti, altri governi. Com’è noto, il “prefetto di ferro”, anche se con metodi piuttosto sbrigativi, conseguì un buon risultato contro la mafia di basso e di medio livello. Non riuscì a raggiungere il livello apicale perché, ad un certo punto, fu fermato da Mussolini e giubilato con uno scranno al Senato. Comunque sia, per un lungo periodo - raccontano i nostri vecchi contadini e le statistiche - l’Isola fu resa sgombra da questo terribile flagello. E questo è un fatto che - a distanza di tanto tempo - bisognerebbe riconoscere, senza imbarazzi, senza per ciò temere di passare per “revisionisti”. Siamo talmente vaccinati contro il fascismo, di ieri e di oggi, da poterci permettere il “lusso” della verità storica.

Lo Stato democratico più “forte” di qualunque dittatura
Taluni, anche eminenti studiosi, hanno osservato che ciò avvenne perché il fascismo, essendo uno stato forte e totalitario, non poteva ammettere l’esistenza, seppure in una parte del territorio italiano, di una sorta di anti-Stato o di Stato nello Stato. Anche questo è vero, anche se con tale assunto non si può liquidare un fatto cosi rilevante sul piano storico e politico. Visto il dramma in cui oggi si dibattono tre grandi regioni meridionali, l’osservazione potrebbe, di converso, indurre a pensare a una grave debolezza dello Stato democratico e antifascista, nella misura in cui tollera o addirittura tratta con la criminalità organizzata. Insomma, i regimi, i politici, i funzionari passano ma, per fortuna soprattutto dei più deboli, lo Stato resta e continua ad operare come principio regolatore e organizzatore della società. Perciò, uno Stato degno non può ammettere, tollerare, sullo stesso territorio, un’entità concorrente o parallela, per altro illegale e violenta. Ancor di più il nostro Stato democratico, nato dalle rovine del nazi-fascismo, che essendo basato sul libero consenso popolare, sul pluralismo è, o dovrebbe essere, più forte ed efficiente che qualunque dittatura.
Agostino Spataro

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