giovedì 15 ottobre 2009

LE STORIE. I figli dei boss, il calcetto, la cooperativa:ecco come è rinato il paese di Riina

Ultime elezioni europee. Al comune si stanno sorteggiando i nomi degli scrutatori tra quelli che hanno presentato domanda. L’ultimo degli estratti tra i supplenti fa saltare sulla sedia l’impiegato. «Lucia Riina, vicolo Scorsone, 39». Sì, è proprio lei, la figlia minore di Totò u Curtu, del "capo dei capi". «L’impiegato è arrivato da me tutto pallido e col foglietto in mano: "Che dobbiamo fare?"», ricorda il sindaco Antonino Iannazzo. Un’ora di discussione in Comune. C’è chi propone di far finta di niente e rimettere dentro quel nome ingombrante e imbarazzante. Ma il sindaco si oppone. «Noi siamo lo Stato. Anche lei, visto che si è iscritta, accettando le regole. Se rimettiamo dentro il suo nome siamo noi a metterci contro lo Stato. È una scelta di coerenza». E allora si va avanti. Lucia Riina viene inserita tra gli scrutatori supplenti. Non ce ne sarà bisogno. Non l’unico episodio. Nell’estate 2008 viene organizzato un torneo di calcetto in piazza. Tra le iscrizioni arriva anche la squadra di Salvuccio Riina, l’altro figlio di Totò, appena uscito dal carcere per decorrenza dei termini (è poi tornato in cella l’8 gennaio). «Se glielo impedivamo ne avremmo fatto una vittima e quindi un idolo – ricorda ancora il sindaco –. E neanche potevo annullare la manifestazione. Corleone non può essere diversa da Milano. Quindi poteva giocare». La sua squadra accanto a quelle dei poliziotti e dei carabinieri, dei giovani che coltivano i terreni confiscati al padre. «Tutti insieme, questo torneo era la proiezione del paese». Salvuccio arriva in semifinale, con una squadra piena di ragazzi palermitani. Di fronte ha una squadra solo di giovani corleonesi. Gli applausi sono tutti per questi ultimi. E vincono. Il lavoro nei campi che appartenevano alla mafia. Mario scende dal pulmino che ha guidato per portare i ragazzi toscani che hanno lavorato sui campi che erano di Riina, Provenzano, Bagarella e Brusca. Gino ha lavorato con loro su quei campi, spiegando e correggendo. E così Maurizio, Franco, Angelo e Piero. Loro erano "persone svantaggiate", disabili, malati mentali. Ora non più. Proprio grazie al lavoro sui beni confiscati al clan dei "corleonesi". «Ci chiamavano la cooperativa dei pazzi, proprio perché c’erano loro – ricorda Salvatore, fondatore della cooperativa "Lavoro e non solo" – ma anche perché i mafiosi non pensavano che dei corleonesi potessero andare a lavorare sui quei terreni». All’inizio, nel 2000, "due sani" e "tre pazzi". «Ma chi erano i più matti, noi due o loro tre?», commenta ancora Salvatore.L’idea nasce dalla collaborazione tra amministrazione comunale (allora di centrosinistra), la Asl, l’Arci e alcuni giovani agricoltori corleonesi. E continua felicemente con l’attuale amministrazione di centrodestra. Per gestire i beni confiscati, abbandonati da anni, ma anche per aiutare altri giovani svantaggiati, nel più puro spirito delle cooperative sociali. Anzi di più. Così anche se basterebbe avere tra i soci il 30 per cento di persone svantaggiate, qui si è scelto il 50 per cento, sei sani (ci sono anche Calogero, Franco, Bernardo, Francesco e Franco) e sei "matti". E tutti corleonesi. «Noi facciamo agricoltura ma puntiamo molto anche sul sociale. Se qualcosa è cambiato a Corleone è perché abbiamo investito su noi stessi». I sani e i matti. Anzi ex matti. Mario, Mariuccio per tutti, quando è arrivato non parlava con nessuno. Si vergognava perché non aveva studiato. Subito al lavoro e chiuso in casa. Fin da piccolo. Questa la sua "malattia". Ma qui si è sbloccato, con un lavoro motivato, a fianco dei ragazzi "normali". Oggi della cooperativa è il vicepresidente, parla e scherza, naviga su facebook e ha preso anche la patente. Anzi, per prenderla ha dovuto fare una scelta importante: rinunciare allo status di disabile e quindi alla pensione. Ha rinunciato per una vita davvero normale. Così come quella di Gino, sposato e con due figli, depressione, lavoro abbandonato, una vita ridotta tra quattro mura. Ora anche lui è tornato a vivere, tra lavoro di manovale e di contadino. E così anche gli altri quattro.«All’inizio – ricorda ancora Salvatore – siamo stati allontanati dalla città corleonese ma con noi c’erano le associazioni che ci sostenevano, almeno moralmente. Ma dopo 3-4 mesi si è creato il vuoto, c’era l’oscurità. Potevamo smettere ma ormai il "danno" per i mafiosi era fatto e quel "danno" andava riparato». I ragazzi della cooperativa, però, non si sono tirati indietro. Anche se, ricorda ancora Salvatore, «quando la mattina uscivo i miei genitori mi salutavano come se fosse l’ultima volta». Ma col sostegno dell’Arci Toscana, dell’Agesci, di Banca Etica e dell’amministrazione comunale l’avventura non si è fermata. «C’è meno isolamento. Stiamo facendo molto per farci conoscere, per coinvolgere i ragazzi del paese. Quei beni tornano alla società civile. Noi li vogliamo gestire ma anche condividere con gli altri, vogliamo dimostrare il cambiamento. Siamo contenti, loro (i "pazzi", ndr) stanno bene, certo abbiamo ancora problemi ma andiamo avanti. All’inizio ci avevano buttato in un oceano, oggi abbiamo imparato a nuotare. Abbiamo imparato a fare qualcosa che è più grande che fare soldi».E le parrocchie animano la cultura. Un giornale tematico, la presentazione di libri in collaborazione con l’Università di Palermo, una biblioteca con oltre 20.000 libri creata nel 1984, un doposcuola per i ragazzi. A Corleone il paese famoso nel mondo per la mafia e per avere dato i natali a Totò Riina e Leoluca Bagarella c’è grande fervore culturale. Nella parrocchia di San Leoluca, non c’è pausa, ogni settimana si alternano le attività culturali realizzate con il gruppo giovanile dell’associazione San Leoluca, nato dall’intraprendenza di don Calogero Giovinco. «Prima mancava una struttura simile – spiega don Calogero – adesso nella biblioteca lavorano 15 persone, la maggiore parte dei quali sono giovani. L’associazione organizza periodicamente molte iniziative culturali». Uno dei prossimi appuntamenti sarà, a novembre, la presentazione del volume «Antonino Ferraro e la statuaria lignea del 500 a Corleone» di Antonio Giuseppe Marchese, un docente, cultore alla facoltà Ingegneria dell’Università di Palermo. L’incontro sarà coordinato da Antonino Buttitta, docente di Antropologia culturale e figlio del grande poeta dialettale Ignazio Buttitta.A Corleone, che conta altre tre parrocchie – San Martino, Santa Maria e Santa Maria Grazie – vengono organizzate, sempre dai giovani attività culturali religiose come «La settimana biblica» e sociali come il doposcuola per una quarantina di ragazzi. «I corsi vengono svolti con grande spirito di servizio da giovani laureati e laureandi – aggiunge don Giovinco – che seguono i bambini con grande passione e amore». Negli ultimi anni Corleone e i suoi abitanti hanno compiuto un’opera di rivalutazione e di riscoperta della città, del suo ricco patrimonio artistico e culturale. In questo ambito è stato realizzato il Museo Etnografico della parrocchia di San Leoluca. La Collezione etnografica è costituita da oltre duemila oggetti, risalenti tra la fine dell’800 e i primi anni quaranta del 900.
L'Avvenire, 15 Ottobre 2009

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