sabato 16 gennaio 2010

In Sicilia la bandiera dell'autonomia non ci salverà dal tracollo socio-economico


di Francesco Palazzo
L´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, stavolta da Detroit, è stato più chiaro e meno caustico dell´ultima volta. Qualche settimana fa aveva chiosato che tutto si poteva risolvere spostando la Sicilia e portandola vicino al Piemonte e alla Lombardia. Adesso ci dice che spesso i produttori non fanno sino in fondo i conti con la crisi, al posto di chiudere gli impianti li tengono aperti in cambio di fondi pubblici. Ha parlato di nazionalismo economico. Nel caso della Regione siciliana, che ha già sventolato sotto il naso della Fiat un assegno da quattrocento milioni di euro, da investire in infrastrutture, per scongiurare la chiusura dello stabilimento di Termini, si può parlare di regionalismo economico guidato dalla mano pubblica. Su questo la politica regionale si trova sempre tutta d´accordo. Ne è una prova l´ordine del giorno che dà mandato al governatore di andare a Roma e provare a fermare le intenzioni, pare definitive, che provengono da Torino. Sembra l´ennesima puntata della fiction sulla Sicilia offesa e umiliata dal Nord, dopo che noi abbiamo dato braccia e menti negli anni dell´emigrazione. Che per la verità non sono finiti. E certo non per colpa della Fiat. Un flusso inarrestabile di giovani che vanno via, spesso con percorsi scolastici eccellenti. A quante fabbriche chiuse equivale tutto questo? Difficile fare una stima, si tratta di numeri comunque elevatissimi. Solo che siccome il fenomeno avviene goccia a goccia, e non in maniera traumatica come nel caso di Termini, nessuno se ne fa carico. Quando i nodi verranno tutti al pettine, perché prima o poi accade qualcosa, un punto di non ritorno, come il niet di Marchionne, e ci ritroveremo sempre più lontani dalle regioni più produttive, potremo sempre affermare che da Roma, dal Nord, da chissà dove, siamo sfruttati e lasciati a noi stessi. Ora abbiamo ritirato fuori dalla soffitta la nostra bella bandiera autonomistica. Che se ne faranno gli operai di Termini e le ragazze e i ragazzi che vanno via, di questo particolarismo anacronistico, retorico e sprecone, è facile immaginarlo. Non gliene può importare di meno. La politica siciliana, ovviamente, fa finta di non accorgersene, come quei passeggeri che ballavano mentre la nave affondava. Se ne esce tirando fuori la moneta sonante e non capisce che non possono essere risolti sempre così i problemi. Lo puoi fare per decenni e affondare le casse pubbliche per salvare questo e quello, ma principalmente per salvare una politica indecente. Il gioco riesce quasi sempre. Tuttavia, a un certo punto ti trovi davanti uno che ragiona da imprenditore e ti dice, né più né meno, che non può sostituirsi alla mano pubblica nel creare o conservare il lavoro. Ma la politica siciliana non vuole sentire ragioni. Sbraita, si sbraccia, protesta, si appella, marcia a fianco dei lavoratori. Come se fosse la spettatrice e non la causa di questo deserto. Dall´altra parte ancora niente. Insomma, ogni tanto qualcuno ci ricorda che stiamo affondando. Oggi è Marchionne a farlo, domani accadrà qualcos´altro, dopodomani ancora un´altra sberla di questo tipo. Abbiamo l´impressione che, d´ora in poi, accadrà sempre più spesso. E la classe dirigente di quest´isola, come quel pugile dal volto tumefatto dai cazzotti che non vuole ammettere la sconfitta, rimarrà sempre sul ring. Progettando Partiti del Sud, Pdl Sicilia, Pd a vocazione regionalista e quant´altro occorre a fare di noi, più che un laboratorio, quasi macchiette nel panorama politico nazionale. Maggioranze che si sciolgono, opposizioni che ondeggiano, governi che passano, senza problema alcuno, dalla fase uno a quella due per approdare a un bell´esecutivo di minoranza che cercherà di sopravvivere qualche mese. Non è vero che tutto ciò avviene per salvaguardare gli interessi della Sicilia. Perché, come dimostra la chiusura di Termini, gli interessi della nostra regione stanno andando a farsi benedire. Quello di cui abbiamo bisogno non è più Sicilia, ma più Italia e più Europa. Poiché, però, sul ponte di comando la festa deve continuare, nessuno si rende conto che la bandiera della Sicilia vittima ormai è un inutile passatempo di società. Che serve a raccogliere qualche voto e a far appassionare ancora molti ingenui. Ma che alla fine è il lacero vessillo della nostra inadeguatezza sociale, economica e politica.

La Repubblica, 16 gennaio 2010

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