domenica 3 luglio 2011

Il procuratore Francesco Messineo: «Quella dei “corleonesi” è una famiglia ad intensa vocazione criminale»

Totò Riina
di Giorgio Petta
«La vecchia mafia non ha alcuna intenzione di ritirarsi. E tanto meno il nucleo familiare di Salvatore Riina. Nonostante la repressione delle forze dell'ordine, i processi e le condanne a pesantissime pene detentive, c'è tra questi personaggi mafiosi una perdurante, intensa vocazione a proseguire nelle attività criminali». C'è una punta di amarezza nelle parole del procuratore Francesco Messineo. Non si contano le indagini e gli arresti degli ultimi anni a carico della cosca corleonese, eppure i «peri 'ncritati» continuano a dettare legge. Se ci fossero ancora dei dubbi tra gli inquirenti, i risultati dell'inchiesta «Apice» li hanno spazzati via. Diciotto anni dopo la clamorosa cattura di «Totò u curtu» e cinque dopo quella di Bernardo Provenzano in contrada «Montagna dei Cavalli», Corleone resta infatti la «capitale» della mafia siciliana e quindi dell'intero Pianeta. Con un ruolo di preminenza - spiega il procuratore - del «nucleo familiare di Riina», che sarebbe stato certamente ancora maggiore se le bufere giudiziarie non l'avessero travolto. A partire da Giovanni, il maggiore - dopo Maria Concetta - dei quattro figli di Totò Riina e Ninetta Bagarella, che sta scontando l'ergastolo per vari omicidi commessi insieme con lo zio Leoluca Bagarella a Corleone. Come hanno riferito diversi collaboratori, «Gianni» - che oggi ha 35 anni - era destinato a raccogliere lo scettro del padre e sarebbe stato lui il nuovo capo dei capi di Cosa nostra se non fosse finito in cella. Lo zio - hanno spiegato i collaboratori - lo stava «educando» a prepararsi all'incarico a cui lo aveva designato suo padre. Anche l'altro maschio di casa Riina, Giuseppe Salvatore, è in carcere dove sta scontando una condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Quanto alle ragazze, Maria Concetta ha avuto qualche guaio giudiziario mentre Lucia, la più piccola dei fratelli Riina, non è stata mai coinvolta in alcuna indagine. È per queste obiettive difficoltà - come risulterebbe da una serie di intercettazioni ambientali - che Gaetano Riina, in attesa di tempi migliori, si sarebbe fatto carico, a 79 anni, del ruolo di capo effettivo, senza esserne stato ufficialmente nominato, del mandamento mafioso di Corleone e di «educatore» dei pronipoti Giuseppe Grizzaffi e Alessandro Correnti. «Noblesse oblige». Gli inquirenti - almeno per il momento, vigendo il segreto istruttorio - non citano il nome di Ninetta Bagarella che, in ogni caso, resta il punto di riferimento del marito, detenuto nel carcere di Opera e sottoposto al regime del 41 bis che gli dovrebbe impedire qualsiasi contatto con il mondo esterno. In fondo, è lei la «memoria storica» - anche per appartenenza ad una rilevante famiglia mafiosa - di quanto è accaduto dentro Cosa nostra nell'ultimo cinquantennio. Fatto sta che i «corleonesi» continuano a dettare legge. Con un ruolo preponderante che si è affermato nei primi anni '60 del secolo scorso, in occasione della guerra di mafia tra i Greco e i La Barbera. Un conflitto da cui emerge unico vincitore Luciano Liggio, insieme con i suoi luogotenenti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. È in quegli anni che "Lucianeddu", dopo avere eliminato il 2 agosto 1958 il vecchio capomafia Michele Navarra, comincia a tessere la rete di alleanze e di rapporti che porterà il suo clan ad uscire dai confini di Corleone per affermarsi come uno dei più potenti e influenti di Cosa nostra. Con il risultato che Salvatore Riina, nel 1969, fa parte, quale «rappresentante» dello stesso Liggio all'epoca latitante, del triumvirato - insieme con Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti - che gestisce gli affari di Cosa nostra in difficoltà a causa della repressione dello Stato.

Il disegno di supremazia mafiosa perseguito da Liggio è realizzato - dopo il suo arresto a Milano nel 1974 - da Totò Riina. Con determinazione assoluta e senza fermarsi davanti ad alcuno ostacolo. È lui - come hanno riferito decine di collaboratori, da Tommaso Buscetta ad Antonino Calderone - a condurre la strategia che costringerà Cosa nostra, dopo l'ennesima guerra di mafia dei primi anni '80, ad imboccare la strada senza ritorno della sfida allo Stato con l'assassinio di magistrati e investigatori, con le stragi e gli attentati che insanguineranno anche Milano, Roma e Firenze.

Il 15 gennaio del 1993, giorno in cui il Ros scrive la parola «fine» sulla ultra ventennale latitanza di «Totò u curtu», sembra che la storia di Cosa nostra abbia finalmente voltato pagina e che per i famigerati «corleonesi» ed i loro alleati sparsi in tutta la Sicilia sia iniziato un inarrestabile declino. E invece no. «La mafia - aggiunge il procuratore Messineo - continua ad essere uguale a se stessa e non ha la minima intenzione di mutare i suoi comportamenti criminali e di rinunciare ai suoi legami con il territorio. L'inchiesta dimostra che il mandamento mafioso di Corleone continua ad avere una centralità di riferimento per tutte le cosche e questo nonostante Totò Riina sia nell'impossibilità di svolgere effettivamente il ruolo di capo dei capi di Cosa nostra. Pensavamo che fosse cambiato qualcosa. Gaetano Riina, nuovo capo "per rispetto" del fratello in carcere, del mandamento corleonese, è la prova che ci eravamo sbagliati».
La Sicilia, 02/07/2011

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